di Damiano Mastroiaco (esperto oplofilo, pubblicista del settore armiero)

Che dire degli anni Ottanta, che non sia stato già detto? Quali lacrime di rimpianto versare, ancora?
Come tanti nati nel 1962, avevo più o meno 18 anni nel 1980… Sceso dal bus 391 mi ritrovai a varcare per la prima volta l’ingresso umbertino del Tiro A Segno sezione di Roma, con i suoi toni sul rosso e l’inconfondibile profumo di erba folta. Il bambino che ero stato non era estraneo a quelle contrade. Avevo abitato, coi nonni, sui luoghi che prima degli edifici lecorbusiani del Villaggio Olimpico avevano ospitato l’ippodromo romano di Villa Glori, poi cancellato -anche dalla memoria- grazie al grande rito collettivo delle Olimpiadi 1960. Quell’erba, quegli spazi, il fascino del travertino arroventato di Ponte Flaminio erano da tempo parte di me, che ero cresciuto in mezzo al Neorealismo e non lo sapevo. Legare tutto questo all’idea stessa dello Sport era stato naturale per quel bambino, che quando bambino non fu più, abbandonò Giornalino, Zagor e Supereroi Marvel per dedicarsi all’appuntamento mensile con le riviste d’armi, le cui pagine altro non fecero che spingerlo alla pratica agonistica. Riconosciuta la vocazione, non mi restava che tornare ad attraversare Ponte Milvio come faceva spesso quel bambino. E prendere il 391. Il momento più magico per il neofita del Tiro Accademico, la scelta fra pistola o carabina a dieci metri, si risolse con l’opzione arma lunga, su consiglio del direttore di tiro Raffaele Di Meglio. Una gita al mercato di Via Sannio mi procurò una giacca militare che mia madre modificò sapientemente, e così bardato iniziai a vivere le mie giornate da tiratore di Carabina a 10 metri. La vecchia, gloriosa C10: Feinwerkbau 300S Match, legno autentico e pregiato, pistone a molla.

Non passò molto prima che mettessi le mani su di una vera giacca da tiro usata, in pelle bianca e blu. Certo la tettoia in plastica ondulata del poligono a dieci metri con la sua struttura in ferro, la giacca in pelle foderata in velluto e le estati romane mi facevano sentire un eroe, ma in cerca di refrigerio, le visite a quel poligono a 50 metri arieggiato e pieno di suggestioni olimpiche si erano fatte seconde solo alle puntatine al bar. È curioso come la difficile, classicissima specialità della Pistola Libera riesca a incassare le simpatie perfino dei carabinisti più convinti. Non mi dispiaceva assistere a una competizione, o anche a un allenamento, specie se si svolgevano alle ultime cinque linee.

Per ragioni rimaste imperscrutabili, quelle cinque linee si giovavano ancora del vecchio impianto con bersaglio “a ritorno” e si chiudevano in un terrapieno, invece che sulle sicure ma fredde trappole per i proiettili con tanto di corridoio interno. Vedere i buchi sul bersaglio da vicino invece che attraverso un cannocchiale non aveva prezzo, anche se con l’altro sistema si erano snellite le operazioni di classifica e conteggio. Ma come sappiamo, non si vive di solo pane. Quella volta, alle linee “vecchie”, c’era un solo tiratore di Pistola Libera, in allenamento. Il ragazzone, che avevo conosciuto ai dieci metri, sembrava stesse impegnandosi più dell’usuale, per essere un allenamento pre-vacanziero, e andava snocciolando il rosario delle .22lr con una concentrazione che avevo visto raramente. Quando il bersaglio tornò, fissato sul telaio mobile, vidi con sorpresa che al centro, proprio sulla mouche, il tiratore aveva incollato con lo scotch una moneta da cento lire. Se ne fosse accorto il direttore di tiro Renato Ferri sarebbe avvenuta l’apocalisse, ma l’ufficietto del direttore era lontano, e la presenza del terrapieno scongiurava le possibili conseguenze di quel comportamento assai oltre il necessario.

Benché il ragazzone fosse giunto a consumare oltre la metà della scatoletta delle .22, la moneta non se ne era data per intesa e campeggiava beffarda sul bersaglio, integra e immacolata. Sarà stata forse la mia presenza in veste di testimone, a condizionare il tiratore, o forse un volgarissimo surplus di concentrazione… di fatto uno degli ultimi colpi sparati dalla TOZ produsse un suono strano, sul bersaglio, un suono diverso da quello prodotto fino ad allora sulla superficie cartacea.Il bersaglio tornò ancora, e vidi che dove prima erano state le cento lire si apriva uno squarcio di cinque centimetri.

Ora sì che il ragazzone “liberista” e io potevamo finalmente andare a prenderci un sospirato caffè. Poi sarei tornato alla mia carabina Feinwerkbau, alla gradita tortura della giacca in pelle e ai più piccoli bersagli di tutto il mondo del Tiro Accademico. Eppure … Eppure c’era qualcosa che mi frusciava in testa, qualcosa che non sapevo definire, e che sarebbe rimasto lì per anni. Solo in tempi recenti quel bersaglio di Libera mi è tornato in mente, complici le prime avvisaglie di vecchiaia: alla fine le cento lire erano state colpite, ma appunto alla fine, quando la scatoletta da 50 colpi di .22lr era quasi esaurita. I tentativi avevano concentrato una trentina di colpi intorno alla moneta; in tutto, una trentina di “dieci”: più o meno interni, più o meno “pizzicati”, più o meno “ribaditi” … ma comunque “dieci”. E questo in un’epoca in cui, con un 550 su 600, eri un signor tiratore. Il ragazzone aveva di fatto concluso tre serie da 100, consecutive, senza neanche rendersene conto. Le cento lire, probabilmente, sono ancora là.
Damiano Mastroiaco