Ting!…

Di Damiano Mastroiaco
(esperto oplofilo, pubblicista del settore armiero).

Una sera d’estate, un saggio ottantenne che non aveva trovato compagnia sulla Via Salaria, scrutando il tramonto romano mormorò: “Solo un vero credente ha il diritto di bestemmiare”. E non lo fece.

La metallurgia, con tutto il suo carico iconografico e culturale, ha sempre dimorato negli abissali recessi della mia virile sensibilità. Gli elettrodi attraversati dalla corrente, il cupo ronzio della saldatrice e le scintille della mola, il suono di quei martelli così “antichi”, così anneriti dal fumo e dal fuoco, così diversi da quelli da carpentiere sempre sporchi di calce, tutto esercitava un fascino assoluto sul giovinastro che fui.

Come poteva un pezzo d’acciaio che era passato fra i carboni ardenti, offuscato e unto dalla tempra in olio, trasformarsi in una lama rifinita a specchio? Certo che poteva. Ma bisognava sapere come convincerlo. E lo strano era che la differenza fra una lama forgiata e una ottenuta per tranciatura non sarebbe mai sfuggita a un occhio esperto, una volta subite tutte le lavorazioni; magari il titolare di quell’occhio non avrebbe saputo esporre i parametri del giudizio, di certo ci avrebbe preso in pieno nel discernere un pezzo unico da un prodotto “industriale”, ripetitivo per definizione.

L’autore in un tentativo di forgiatura.

Quell’ulteriore, ingombrante mia vocazione, non poteva trovare manifestazione più simbolica se non nelle forme di una costosa incudine da 80kg: il più bel regalo che mio padre mi avesse mai fatto. Come ogni aspirante fabbro che si rispetti, iniziai dalle mosse più elementari. Imparai ad appuntire una barra dosando i colpi, scoprii come indirizzarne le deformazioni successive e realizzai una prima, rozzissima tenaglia. Ma per quanto mi riguardava, i ferri taglienti corrispondevano a ciò che erano state chiavi e serrature per quel grande fabbro che fu Luigi XVI: una vera ossessione. Grappe per il legno, cacciaviti, sottili scalpelli da muro mi avevano stancato presto; passarono perciò mesi di tentativi che andavano dal patetico ​al “francamente imbarazzante”, prima che finalmente le mie “lame” iniziassero a somigliare a loro stesse. Nel frattempo approfondivo la conoscenza, senza ambire di spingermi fino alla Fisica, dei trattamenti termici; mi aiutarono una modesta comprensione della lingua inglese e le poche pubblicazioni anglosassoni disponibili in Italia. Ero ormai in grado, senza affanni, di spianare uniformemente una barra tonda o quadra, fino a renderla non dissimile da un qualsiasi estruso di laminatoio; non c’era profilo di lama paragonabile, in quanto a complessità realizzativa, ma tutto questo cominciò a non bastarmi. Non mi era più sufficiente accendere la forgia, raggiungere il calor giallo e convincere a martellate la barra ad assumere l’aspetto di un profilo di lama: volevo invece realizzare qualcosa che fosse sì raffinato, ma usando metodi il più possibile “primitivi”. Non so se l’uso corretto di una comune lima possa essere definito “primitivo”, ma si può sostenere senza temere scomuniche che sia più laborioso e frustrante del canonico impiego della levigatrice a nastro, se non altro per i tempi e le ansie che è doveroso dedicargli.

Accesi la forgia con più trepidazione del solito e mi concentrai su ogni colpo, ogni cambio di posizione e ogni sfumatura di colore; poi lavorai di morsa e lima grossa dosando spinte e inclinazioni fino a quando eccola finalmente lì, la stupenda lama ricurva da Caccia scaturita da un pezzo di acciaio C70. Avevo usato due martelli autocostruiti, uno dei quali asimmetrico, Coke misto a carbone di legna e tanta pazienza, e alla fine mi trovai di fronte a un grezzo dello spessore di 5mm, uniforme in ogni sezione. Il grezzo, benché forgiato, non differiva da una sagoma ritagliata da una barra commerciale; ma ciò che contava era che la conoscessi io, l’epopea che mi era costato. Il grezzo, benché forgiato, non differiva da una sagoma ritagliata da una barra commerciale.

Su Etsi.com un martello asimmetrico professionale da fabbro costa anche più di 150 €uro.

Assottigliai il codolo per l’inserimento della guardia e tracciai il riferimento per il filo col pennarello indelebile, destinato a fornire il limite alla lima in fase di formatura del bisello. C’è qualcosa di poetico nella lima, nella dedizione con cui è necessario gestirla, negli accorgimenti che richiede, dal gesso sul tagliente fino alla necessaria e frequente pulizia. Senza servirmi di alcuna guida unii i vari riferimenti, mi innamorai dei nettissimi tratti del ricasso che andavano profilandosi e per un certo periodo riavviai la stufa a legna con la carta vetrata usata… E così fino a ​ quando, facendo violenza a me stesso, non mi convinsi che ogni ulteriore insistenza avrebbe solo nuociuto alla perfezione raggiunta. Strinsi così fra mani tremanti qualcosa che fino a poco tempo prima avevo potuto ammirare solo sulle pagine di Blades, di Knife World, o de La Passion des Couteaux.

L’autore in azione.

Non restava che il trattamento termico: poi, l’ultima lucidatura e il montaggio di manico e guardia. Dopo tutto questo, realizzare il fodero sarebbe stato un vero relax. Ma da par suo, il destino cinico e baro tramava nell’ombra. Un pezzo di tubo in ferro mi permise di portare la lama alla giusta temperatura senza contatto diretto col carbone. Studiai il giusto colore, saggiai l’uniformità della temperatura grazie a una calamita e quando il pezzo divenne amagnetico strinsi ancor più le tenaglie avvicinandomi al barattolone di latta riempito d’olio. Immersi la lama con gesto preciso ma non affrettato. Attesi che la lama si raffreddasse di quel tanto che mi consentisse la manipolazione e la estrassi dall’olio. Quello che per il momento poteva essere il mio capolavoro si era incurvato lateralmente. Ci rimasi male, ma più che altro perché quella famosa, conosciutissima “paura di vincere”, che mi aveva graziato per tutti i miei anni da tiratore, mi si era mostrata proprio quando meno avrebbe dovuto. Mi ero dimenticato di preriscaldare l’olio, e questo aveva prodotto un raffreddamento traumatico, non graduale. Nulla di irreparabile, sarebbe bastato riscaldare di nuovo la lama, raddrizzarla con delicatezza e attendere il raffreddamento, per poi ripetere il procedimento di tempra. E invece no. Preso da quella che definirei “frenesia da frustrazione” (chissà come si chiama, in realtà) posai la lama così com’era sull’incudine e… TING!!! Il martellino asimmetrico, quello che con un paio di soavi colpetti avrebbe dovuto risolvermi il problema, spezzò in due la lama, resa fragile come vetro dal raffreddamento appena eseguito. ​Forse per la prima volta in vita mia mi sembrò di svenire, con tanto di capogiro e un principio di catatonia. Come avevo potuto compiere un errore così marchiano? E perché stavo girando intorno all’incudine come un folle? Perché non riuscivo a profferire parola? La risposta, insieme al ricordo dell’anziano signore della Via Salaria, mi colpì come lo zoccolo di un cavallo da tiro: per esprimere -sia pure in forma deprecabile- il suo stato d’animo del momento, a quel vecchio saggio i santi di tutto il calendario semplicemente non sarebbero bastati. Per questo preferì tacere: per la manifesta inadeguatezza di qualunque blasfema ritorsione avesse potuto produrre. Ma almeno, quel mio perduto capolavoro avevo fatto in tempo a fotografarlo.

Damiano Mastroiaco